Apple, Google & Co non parcheggiano semplicemente i loro soldi nel conto offshore di turno, ma investono questi soldi, quasi 3000 miliardi, in altri prodotti finanziari.
È risaputo infatti che molti di questi soggetti operano già come banche di investimento e lo fanno a pieno ritmo, con volumi paragonabili a soggetti del calibro Jp Morgan o Bank of America.
Come fanno? Attraverso un conto offshore stazionato in paradisi fiscali come Lussemburgo, Cayman o Bermuda dove confluiscono quei guadagni che non vengono distribuiti sotto forma di dividendi o per piani di riacquisto di azioni proprie. Qui arrivano anche i soldi raccolti emettendo obbligazioni a tassi vantaggiosi, poiché si tratta di aziende che possono permettersi di pagare interessi bassissimi a chi fa loro credito.
Una volta che questi enormi fondi saranno rimpatriati (e va in questa direzione la riforma fiscale di Trump), le aziende dovranno pagare le tasse. Ma sul quando far rimpatriare i soldi, ogni società gode di libero arbitrio.
Nell’attesa, che forse non avrà mai fine, di far rimpatriare i soldi, essi vengono reinvestiti in prodotti finanziari che producono ulteriore ricchezza: obbligazioni di altre società, titoli di Stato Usa, titoli nati da cartolarizzazioni e molto altro.
Facciamo degli esempi: Apple investe soprattutto in corporate bond, seguiti da 50 miliardi di titoli di Stato Usa e diversi miliardi tra titoli frutto di cartolarizzazioni e quote in fondi monetari. Microsoft investe soprattutto in titoli di Stato USA. Google invece sfrutta titoli di Stato, obbligazioni societarie, titoli subordinati e FX Swaps (contratti in cui si cambia una valuta con un’altra).
Insomma, ogni big adotta strategie diverse, unite da una costante: mentre il mondo si interroga sul possibile ingresso dei colossi dell’Information Technology nel settore dei servizi bancari, essi ci sono già dentro da tempo.
Queste centinaia di migliaia di dollari, qualora dovessero essere disinvestiti e rimpatriati, potrebbero esercitare forti pressioni sui tassi di interesse, tanto da interferire con le strategie delle banche centrali.
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